KLP | La variante E.K.: come spezzare il filo del senno

Articolo pubblicato su Klp Teatro il 18/01/2013

di Salvatore Insana

Se decidi di ucciderti hai bisogno di qualcuno. Qualcuno a cui dare la colpa del tuo gesto, o a cui esprimere gratitudine per l'aiuto che ti darà per trovare il modo migliore di farla finita.
Luca Ruocco ed Ivan Talarico, ogni volta che si mettono in scena, provano a fornirci questo sostegno decisivo, incoraggiando e addestrando meticolosamente il loro capro espiatorio, l'E.K. di turno – scelto tra i partecipi al rito spettacolare.

Ma non ci sono ancora riusciti al meglio, visto che i loro maldestri tentativi di avvicinare la vittima alla morte sono sempre troppo surreal-dadaisti per risultare anche efficaci. E tuttavia questa non è che la più gran fortuna di coloro i quali, avvicinandosi a “La variante E.K.”, potrebbero scoprire – loro malgrado – d'avere in sé quel predestinato suicida che funziona da molla e ingranaggio principe per lo spettacolo in questione.

Un uomo alle corde aspira alla corda, ma necessita metodo, questo ci suggerisce la sinossi.
La coppia macabro-goliardico dei DoppioSensoUnico sceglie una vittima prelevandola dal pubblico, scrutandone lombrosianamente la figura.
Posto al centro della scena, il malcapitato diventa il fulcro del non-discorso che i due “agenti della morte” mettono alle corde, il meccanismo sempre diverso di un canovaccio tanto identico quanto imprevedibile, attorno al quale accanire e perfezionare i propri incitamenti a farla finita: con una corda al collo si conquista o si perde una inibizione tutta da scoprire.

La complicità beffarda della coppia d'attori, folgorata sulla via dello humour nero bretoniano e qui al loro terzo spettacolo, perpetra un accanimento kafkiano verso la vittima inconsapevole (della sua colpevolezza e ben di più della propria volontà). Praticando un continuo tormento onirico nella sua variante nera, lo spiazzamento beckettiano è virato al ‘jeu de mots’: la lingua è manipolata a partire dal suo contributo sonoro più che da quello della semantica (è quest'ultima, insieme alle sue imparentate escatologia e gnoseologia, a rischiare seriamente il cappio al collo in questo spettacolo).

L'avvedutezza meta-linguistica e la causticità frammentario-episodica (continue scosse di gelida pulsione attraverso le quali la trama è sempre spezzata e rilanciata) partono da una solida presa di posizione, che ricorda certe dichiarazioni di Antonio Rezza: “E mai un telegiornale che dica [che] ieri sera sono morte mille persone impiccate al filo del discorso”.  
E’ proprio questo ingombrante filo la metafora strutturalista intorno alla quale torturare l'attenzione, perfezionare il gioco scenico, calibrare le sevizie d'una non-narrazione episodica, fatta di sketch che vengono fuori a ripetizione a partire da due tavolini impiegati in modo chirurgico come in sala operatoria, e attraverso i quali il paziente è di volta in volta l'esaminato, la cavia, il soggiacente, ma anche il “vero” protagonista, l'inquisito. Il prescelto.

Tirare la corda è dunque stritolare il collo dello spettacolo, farlo agonizzare per eccesso dadaista, scegliendo la cattiveria come motore per una serie di variazioni-interazioni che hanno da un lato nella freddura e nel cinismo i meccanismi d'azione e di reazione, e dall'altro il dis-impegno civile e l'umorismo nero come “difesa contro l'ineluttabile assurdità dell'universo”.

Il gioco di una coppia nera, come il colore del lutto ma anche quello del delitto, saccheggia il rito funebre, la grande recita di matrice cristiana (ricordando in un intricato gioco di rimandi che funerale deriva da ‘funus’, calare il corpo nella sepoltura con delle funi…), utilizzandola come un vasto catalogo di oggetti e segni da rimanipolare all'occasione, mettendo in scena le abituali figure di contorno (i portatori di bare) e un po' tutto quel che vi gravita intorno (con un occhio al parossismo peculiare della gente del Sud).

Tra maschere e camuffamenti, emerge una recita dissennata che ha il suo picco nel dissacrare il cattolicesimo calcificato nelle nostre membra (l'impasse del Cristo in croce che non riesce a battere le mani ricorda Bene ed è degno di citazione), irridendone i comportamenti e i segni dell'attività rituale, la costernazione ipocrita, il bieco senso del peccato, la lamentazione dolente, il fanatismo cieco.
La morte, in fondo, è forse la cosa più divertente che può capitarci.