TEATRO E CRITICA | Operamolla: gli incubi ironici di DoppioSenso Unico

Pubblicato su Teatro e Critica il 20/2/2015

di Andrea Pocosgnich

Operamolla, nuovo spettacolo di Doppiosenso Unico, in scena al Teatro Orologio, porta in palcoscenico con filosofica ironia la morte. Recensione

Un catafalco coperto da un lenzuolo bianco, due attori con maschere da vecchi impresentabili, calvizie incipiente, ma capelli laterali e posteriori lunghi all’eccesso: «Uno spiffero / Impossibile/ Un venticello, leggero ma percettibile / Siamo sottovuoto. Non entra aria, non esce aria / Eppure secondo me hai dimenticato qualcosa aperto / Ho chiuso tutto dieci anni fa / Tutto? Finestre chiuse? / Chiuse a doppia mandata / La botola? / Chiusa, chiusa / Gli scarichi dell’acqua / Tutta l’acqua è ferma / La porta? / La chiudo adesso / (pausa) Come? / Vado a chiuderla / Dopo dieci anni? / Meglio tardi che mai, la chiudo».

Sarebbe troppo facile etichettare questo nuovo lavoro di DoppioSenso Unico (i precedenti La variante E. K., gU.F.O.) con il tipico riferimento al teatro dell’assurdo, ma è pur vero che non possiamo non rintracciare, soprattutto nella scrittura, certi echi beckettiani. Poi però c’è un gusto tutto posticcio nella messinscena: per le maschere, ma anche per gli oggetti che nel prosieguo dello spettacolo hanno un ruolo drammaturgico ben definito. E poi la morte, al centro di tutte le discussioni: nelle malattie che sono il percorso verso di essa, nella finzione teatrale che sviluppa concretamente l’incapacità di uno dei due personaggi di morire. Però basta concentrarsi e sapere come cadere, mostra l’altro – c’è poi così tanta differenza tra la morte finta, a teatro, e quella vera?

 

È un mondo capovolto quello disegnato da Luca Ruocco e Ivan Talarico in questo Operamolla, spettacolo in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 1 marzo e nel quale a ribaltarsi non è solo l’approccio a temi ontologici come la relazione vita-morte, ma anche il rapporto attore-spettatore. Non è un caso che la seconda parte dello spettacolo lavori proprio su questa relazione applicandovi però una giocosità tutta dadaista che permette ai due autori di non cadere nella trappola metateatrale o di innestare quella conflittualità passionale alla Antonio Rezza, anche se del performer di Nettuno si sentono alcuni ritmi, certe melodie recitative o accostamenti paradossali.

Lo spettacolo, che merita attenzione, ha una struttura da comic strip nella quale il duo Ruocco e Talarico più che interpretare due personaggi, si lascia attraversare dalle microstorie che hanno la forma dello scherzo o della freddura metafisica.

Il filo rosso è dunque tematico e lega la morte e le malattie: la prima spesso vista come un obiettivo utopistico da raggiungere, liberatoria meta impossibile; le patologie invece non portano alla morte ma sono segni distintivi – «bisogna essere costanti, altrimenti le malattie si dimenticano di noi» –, oppure provengono da tratti caratteriali o dello spirito, esacerbati: i tumorati di Dio, il sollevatore di morali, il cinico fisiologico, il masticatore di pensieri. Tutte “malattie” queste che vengono affibbiate agli spettatori, i quali condividono la responsabilità della riuscita dello spettacolo nella seconda parte.

Non vi è niente di urlato o violento nella scrittura – che per alcuni aspetti ricorda in arguzia e agilità quella di Achille Campanile – o nei modi dei due artisti, la critica e la satira si nascondono sempre dietro il paradosso creato dalla situazione. Vale anche per la riflessione sul sacro delegata a una relazione a distanza con alcuni santi che si manifestano durante lo spettacolo tramite lo squillo di un telefono a disco o l’accensione di altri vecchi apparecchi in proscenio. I santi portano acqua al proprio mulino e altro non possono fare che consigliare la preghiera per debellare le malattie.
Il pubblico entra a far parte della “striscia comica” in alternanza con gli sketch degli attori senza modificare eccessivamente i ritmi e i respiri dello spettacolo. Certo il gioco è serissimo e portato all’eccesso: un funerale laico di fronte alla facciata secentesca della Chiesa Nuova mette alla prova proprio la partecipazione in un luogo reale.
Così anche nel finale, quando meno ce lo si aspetterebbe, arriva da questi due stralunati clown, con la maschera di certi (non) attori kantoriani, un altro strappo sulla realtà, ma è solo un attimo, il tempo di lasciare in sospeso una domanda e tornare all’oblio.